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Abroad: rock dal mondo
Il bello della provincia: la crudele bellezza di Canio Loguercio a Palomonte
BOLLETTINO ROCK DALLA PROVINCIA
A Palomonte, la crudele bellezza di Canio Loguercio.
di Angelo Cariello
Palomonte dista una manciata di chilometri dal paese in cui sono tornato a vivere. Sta lì, appollaiato su un monte, schiacciato da sempre nell’indifferente trasparenza dell’orizzonte. Arrivarci dopo giorni di cammino, farvi tappa nel bel mezzo di un’anacronistica crociata poetica – un uomo di grandi lettere al comando e uno strampalato battaglione di aspiranti cercatori di bellezza al seguito – è quel che l’ha svelata per la prima volta ai miei occhi, rilevandola dallo sfondo per rivelarla al mio cuore.
La genuinità, la semplicità, la meravigliosa umanità con cui ci accoglie la gente del posto mi riconcilia con la vita. Sorrisi veri, e un calore spiazzante. All’imbrunire raggiungiamo una chiesetta di campagna. Chi ci ospita ha allestito una tavola colma di ogni ben di dio, ma prima di dare l’assalto al banchetto dovremo assistere ad uno spettacolo. Ci sono le argute invettive in rima baciata di un Trilussa locale. E c’è un cantante. A quel che risulta dalla mia svogliata indagine, dovrebbe trattarsi nientedimeno che – dio me ne liberi – di un neomelodico napoletano. Mmh, mi dico, non si può certo avere tutto dalla vita. Comunque sia, prendo posto in prima fila, a pochi passi dal palco. Ascoltare e, ahimè, far finta di gradire è il minimo che possa fare per ricambiare tutto il disinteressato bene ricevuto in questa giornata. Anche gli altri si siedono, chi a terra come me, chi di fianco alle vecchiette sui banchi della chiesa. Una chitarrina, la magnetica grazia di un volto espressivo, l’amabile trascuratezza del vestire: altro che finzione, l’uomo che guadagna il palco è già il padrone assoluto della mia attenzione. Canio Loguercio impugna un accordo minore, lo arpeggia con pungente vigore, s’avvicina al microfono e attacca:
Scetateve bavuse e pupatelle ‘e babbilonia Arapite ‘e ccape ‘e cosce ll’uocchie ‘e ‘mbrelle E sarrà nu maciello ‘e caprettelle ‘A strage ‘e Sant’Aniello ‘e ll’Ugonotti curnutielle.
Una voce rovente, densa, primordiale. È uno shock, una fattura, è lo slittamento dei miei sensi verso un’ancestrale ricettività dello spirito. Canio Loguercio canta, celebra la sua messa d’amore e viscere nella potenza di un dialetto di sangue, una lama affilata che strazia la carne per abbrancare a tradimento i battiti di un cuore appestato di morte e nero di vita. Lucido, spietato, la sua squarciante poetica scuce di verso in verso le ferite dell’anima turbata da pulsioni scabbiose, per liberarne immagini esasperate che sezionano brandelli di un pensiero incancrenito dall’amore – l’amore vero – sorpreso nella sua brutale essenza di morte. È il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud, e niente lasciava presagire quest’epifania, in quest’oasi di dolcezza scordata al mondo, in questa terra silenziosa dove il terremoto ha insegnato a volersi bene.
Trafitto, nudo, devastato, mi avvicino a Canio … per far cosa? Avrei dovuto prostrarmi ai piedi di un mitologico stregone musicale, e invece farfuglio un «fantastico», arenandomi nelle sabbiose forme dei complimenti. «Ti ho ascoltato oggi», mi dice, «mi piacciono le cose che hai scritto». «Ma dai», gli rispondo, schermendomi come un bambino timido pizzicato a disegnare un cuore. Qualcuno mi chiama, dobbiamo rimetterci in cammino. Canio mi stringe la mano, mi sorride. Mi avvio, riprendo l’incerta via crucis delle mie velleità. Quant’è grande la luce quando incontri la bellezza.
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